lunedì 2 febbraio 2015

Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Epilogo

                                                             Epilogo


Giovanni Riva morì prima della caduta del Muro di Berlino. Aveva previsto anche lui, come altri nel suo partito, che quei regimi non sarebbero durati a lungo. Non vide quindi la fine di quella che qualcuno ha definito "una grande occasione sprecata nella storia dell'umanità". Si potrebbe rimproverare a chi racconta di porre termine alla storia di quest'uomo troppo presto: dal millenovecentocinquantotto ai nostri giorni molte cose sono avvenute, troppe. Ma tutto sarebbe narrato come un dopo. Dopo quella sera delle elezioni e una notte che si concluse davanti a una vecchia torre medievale, col tempo andata sempre più in rovina (oggi restaurata) e accanto a una balaustra di ferro che oggi non esiste più. Giovanni morì pochi mesi dopo Agnese. Non era più tornato a Roma, al suo partito aveva detto di lasciarlo in pace. Andava quasi ogni giorno al cimitero. Dopo aver salutato Agnese, passava a trovare Elena, Clotilde, si ricordava anche della vecchia Armandina e infine sostava un momento davanti alla tomba di suo padre. Negli ultimi tempi trascinava un poco il passo e davanti a quelle tombe si fermava come se attendesse qualcosa. Leggeva ancora molto e guardava la televisione, pochi giorni prima di morire volle ascoltare un dibattito sulla crisi del marxismo. Giovanni Riva se ne andò nel sonno: una morte invidiabile, dice qualcuno.

Ho conosciuto Giovanni Riva quando ero giovane, me lo presentò Tiziana. Accadde a Roma, al termine di una grande manifestazione in onore di Dolores Ibarruri, la compagna Pasionaria che compiva ottant'anni. E così potei ascoltare la voce di quella donna spagnola che aveva lanciato il grido, quel "no pasaran", ed era entrata nella storia. La vidi da lontano, al Palazzo dello Sport di Roma, accanto a lei c'era il segretario del PCI, Enrico Berlinguer. Al termine della manifestazione Tiziana mi indicò un signore con il cranio quasi rasato a zero e il viso asciutto che parlava con Dolores Ibarruri. Poche parole per un saluto e una stretta di mano.
-Quello è Giovanni.-mi disse Tiziana-L'uomo di mia madre, il mio padre adottivo.-
Da allora ho incontrato molte volte Giovanni, spesso gli ho chiesto di parlarmi di quel partito che oggi non esiste più e che già allora era molto diverso da quello che lui aveva scoperto quando era giunto a Parigi, dopo aver valicato le montagne della Valle d'Aosta con in tasca i documenti falsi avuti da uno strano prete. Otto anni fa realizzai, per conto dell'Istituto di ricerca per cui lavoro, un'intervista con Giovanni Riva in cui raccontava la sua vita. In quell'occasione avevo anche intervistato Agnese. Forse a qualcuno i due personaggi della storia che sto terminando di scrivere, sembreranno come le statuette etrusche in cui marito e moglie sono insieme, vicini, come se emergessero da una tomba aperta dopo secoli. Sappiamo che non è così, sappiamo che ci separano dai fatti che hanno attraversato la vita di Giovanni e di Agnese solo poche decine di anni. In questi giorni, mentre sto per concludere la storia che volevo raccontare provo a immaginare come potrei scrivere di Giovanni, del suo partito, di Agnese, di Tiziana, e forse anche di me, se non avessi deciso fermamente di arrestarmi all'alba di quel nuovo giorno. E allora provo a far comparire davanti ai miei occhi alcuni momenti, seguo un metodo: mi appello al ricordo di conversazioni avute non con Giovanni Riva, ma attorno a Giovanni. Le mie fonti di ispirazione si riducono a due persone: la mia amica Tiziana e Vincenzo che recentemente mi ha scritto una lettera in cui giudica in modo positivo un mio libretto pubblicato sei mesi fa. E infine c'è un ricordo, questa volta è un mio ricordo.
E cosa vedo? C'è Agnese seduta in poltrona e sembra la statua della paura. La radio ha appena dato la notizia degli incidenti di Reggio Emilia in cui sono morti cinque giovani antifascisti. La tensione nel paese è alta, Agnese sa che Giovanni a Roma sta organizzando una manifestazione che dovrà concludersi con la deposizione di una corona di fiori al monumento che ricorda la Resistenza, la lapide di Porta San Paolo. La polizia di Tambroni sparerà ancora sui dimostranti? Giovanni è insieme alla sua gente, non potrebbe che essere così. E vedo Tiziana entrare nella stanza con un giocattolo, è un cavalluccio bianco e rosso, un regalo di Giovanni.
-C'è Claretta, mamma posso scendere a giocare?-implora Tiziana, s'è accorta che quel giorno in casa tira una brutta aria. Tiziana infastidisce Agnese. Vorrebbe rispondere a sua figlia che non sono quelli i momenti per pensare al gioco, ma si ferma in tempo.
Sento la voce di Agnese.
-Rimanete nel cortile e quando ti chiamo per cena vieni su senza far storie.-
Tiziana se ne vola via a giocare con la sua amichetta del cuore.

E ora vedo Giovanni Riva che si muove in mezzo a una folla muta, sotto un cielo cupo. Giovanni attorno a se avverte incertezza, rabbia e silenziosa pietà.
L'altoparlante trasmette l'omelia funebre. Il Duomo di Milano è strapieno, come pure la piazza. Giovanni ascolta, anche lui è incerto. Dov'è il nemico? In quali stanze si riunisce e decide? Giovanni sa che è più forte, cento, mille volte più forte del Camelot che lo ferì a Parigi, dello spagnolo che uccise, di chi morì sotto il fuoco dei mitragliatori sulle colline attorno alla sua città. Giovanni pensa ad Agnese: attende inquieta, vorrà parlare con lui della bomba.

Perchè l'anarchico s'è ammazzato?

Giovanni immagina che Agnese quella sera stenterà a prender sonno e sta in pensiero per Tiziana.
-A tutti i costi è voluta restare a Milano. Non ha voluto sentire ragioni.-
Così gli ha detto al telefono. 
E vedo una ragazza avvicinarsi a Giovanni, sorride, ma solo per un momento. Giovanni e Tiziana si scambiano un bacio sulle guance: le bare stanno per uscire dal Duomo. I lunghi capelli di Tiziana si sciolgono sul montgomery e i libri sono nella borsa di pacthwork, è iscritta al primo anno di medicina. Non c'è ombra di trucco sul viso, come usavano le ragazze di sinistra in quegli anni. L'unico ornamento di Tiziana è una sciarpa di seta che  un tempo fu di sua madre, ora le protegge la gola in questa fredda giornata di dicembre. I morti del 12 dicembre del 1969 sono per lei, per i giovani come lei e come me, allora, la perdita dell'innocenza, uno schiaffo improvviso, forse uno stupro. Così è stato scritto. Vedo Tiziana e Giovanni alla stazione di Milano Centrale, lui va da Agnese, Tiziana resta a Milano. Sente il bisogno di parlare, spiegare, organizzare, fare, chiedere. Giovanni le risponde incerto, vorrebbe che  salisse con lui sul treno, ma è contento che Tiziana voglia rimanere a Milano. Dal finestrino guarda la gente, per molti la bomba è solo un fatto. Sente il bisogno di un'infinita pace. Sa, e noi oggi sappiamo, che il desiderio non verrà esaudito.

E ora vedo Giovanni e il suo amico Vincenzo. Nonostante le divisioni del cinquantasei, sono rimasti uniti per la vita intera. Il dialogo che scriverò lo colloco pochi mesi prima che si manifesti il tumore che ucciderà Agnese.

-Avemmo torto ad essere presuntuosi, siamo stupidi oggi a passare per sprovveduti.-
Giovanni ha sotto gli occhi il giornale e la sua attenzione è caduta su un articolo troppo lungo, certamente inutile. Giudica la situazione del partito grave.
Vincenzo gira il caffè nella tazzina.
-Se penso alla mia vita-dice-mi sorprende il giro vizioso che ho fatto. Una donna mi detto che in me c'è sicuramente qualcosa di perverso. Sono andato via dal partito sbattendo la porta, ho fatto il giornalista indipendente, ho scritto libri, ho rifiutato premi, sono stato oltraggiato, adulato, sono diventato vecchio e  finito sullo stesso palco, due giorni fa, a parlare insieme a Giovanni Riva...Si. In me c'è qualcosa di perverso.-
Giovanni solleva il capo, guarda l'amico con aria di sfida. E’ invecchiato, ma conserva i tratti di uomo del nord. Viso lungo, ora solo leggermente arrotondato dall'età.
-Può darsi che la signora abbia ragione.-risponde-Oggi potresti essere un opinionista alla moda, uno che un giorno sì e uno no compare in televisione e parla, parla, parla. Ben pagato. E invece te ne stai con Giovanni Riva. Sono certo che tu sia un perverso pericoloso.-
Vincenzo ride.
-I soldi non mancano. Tu mi hai perdonato per essermene andato via dal partito, allora?-
Sul cinquantasei avevano discusso e a volte anche litigato, mai era accaduto che Vincenzo ponesse il discorso su un piano così diretto e personale. La domanda porta Giovanni indietro nel tempo, a quasi trent'anni prima. Rivede Sibilla. Fra poche ore dovrà andare all'aeroporto per prendere Agnese, questa sera hanno deciso di andare a teatro.
-Forse dovevi restare, forse hai fatto bene ad andar via. Tu almeno non provi la sensazione che ho io quando vado in giro e magari mi trovo con persone che non conosco. Leggo negli occhi degli altri un pensiero: "arriva il comunista". E' come se fosse un avvenimento.-
-Ti pesa la qualifica?-
-No.-
Giovanni questo no l'ha mormorato, guarda oltre la vetrina del bar, oltre il traffico caotico, oltre Roma. Si vede ragazzo.
-Negli ultimi tempi ho pensato spesso a un compagno di cui non ho saputo nemmeno il nome. Lo conobbi prima che mio padre mi spedisse in Valle d'Aosta ad espiare. La riunione avvenne al tramonto, c'era anche Clotilde, poi fummo traditi. Il compagno veniva dalla Francia e ci parlava della Russia, della lotta di classe e del futuro. Era un uomo piccolo e, se ricordo bene, anche un po' brutto. Poveretto, credo che non si cambiasse da giorni. Non fece commenti quando gli altri spiegarono chi ero e da quale famiglia provenivo. Non disse niente, mi colpì solo quello che passò per i suoi occhi...-
-Speranza.-
-No. Compassione.-
-Compassione...-
-Si, compassione. Era come se volesse dirmi, tu apri gli occhi sul mondo. Vedrai quanto è brutto, nauseante, pieno di gente che soffre e fa soffrire. Quell'uomo ebbe compassione per me...-
-Quella che prova un prete.-
-E' troppo semplice. Tutti oggi dicono che dobbiamo essere felici. Io questa felicità la guardo e non posso fare a meno, sempre, di osservare che c'è una macchiolina, una piccola crepa...una lacrima. Ecco cos'è! Una lacrima. Vincenzo. E' come una condanna. Ho capito cosa mi disse allora quel rivoluzionario di professione: tu sei condannato a non essere completamente felice, sei condannato a rappresentare questa non felicità. Questo mi disse.-

E ora mi vedo io, ho tredici anni. Non avevo visto tante bandiere rosse come quel giorno. Sono listate a lutto perché è morto Togliatti...Passo davanti ai giardinetti di Piazza Venezia, dove c'è il capolinea del 92. Sono venuto con mio fratello che mi ha telefonato e ha detto di farmi trovare sotto casa a una data ora. Abbiamo preso l'autobus e siamo  scesi davanti al palazzo dell’Anagrafe, a pochi passi da Via delle Botteghe Oscure. C'è tanta gente e sono un po' confuso. So chi è Togliatti, l'ho visto in televisione, ne ho sentito parlare male da mio padre, due giorni primo ho letto i titoloni dell'edizione straordinaria dell'Unità appesa all'edicola sotto casa. Qualcuno ha detto:
-Ah, è morto...-
Era una voce distratta, attutita dal vento che quel giorno tirava violento, mentre il cielo si oscurava per le nubi cariche di pioggia.
Una ragazza comunista, forse è venuta dall'Emilia, siede sull'erba dei giardinetti accanto a due bandiere rosse stese nel prato. Ha i capelli neri, forse...Un fazzoletto al collo, rosso, e qualcosa di rosso appuntato sulla camicetta celeste. Mi sembra bella, anzi, affascinante. Sento la sua voce, è un italiano diverso dal mio.  
Ci mettiamo in fila e aspettiamo davanti al portone.  Finalmente, in un grande silenzio, entriamo anche noi. Ricordo la bara e tante corone di fiori rossi, quattro uomini in tuta blu, il picchetto d’onore. La gente bacia il drappo rosso che ricopre quel legno, non ricordo se era chiaro o scuro, prima di me passa un vecchio piangendo e struscia la faccia contro la stoffa. Spinto da non so cosa, bacio anch'io la bandiera, mio fratello saluta soltanto. E per la prima volta vedo i comunisti. Tanti comunisti.
Anni dopo, molti anni dopo, sono quasi un vecchio, ho rivisto il film sui funerali di Togliatti pubblicato su YouTube (che straordinaria invenzione!) e in mezzo a tanti comunisti mi è sembrato di vedere  Giovanni insieme ad Agnese che ha portato anche Tiziana. Volevo essere certo di questa scoperta. Era bello e sorprendente poterli vedere molto più giovani di quando li avevo conosciuti. Per questo ho rivisto il film tre volte. Erano proprio loro. E Giovanni c’è di nuovo, questa volta tra i dirigenti del partito che seguono il feretro. Togliatti è morto, i comunisti lo piangono, ma quei volti, quella commozione, quei segni di croce sulla bara di un comunista, i pugni chiusi degli operai che stanno appesi alle grate di ferro e si reggono come marinai provvisti di un equilibrio fantastico, appreso in anni di lavoro sui cantieri di questa Roma sempre più grande, mi sembrano non un addio all'uomo che se n’è andato per sempre, ma un saluto alla storia che sta alle spalle, a un mondo fatto di facce che non torneranno più come in quel giorno. E' qualcosa che muore. E’ un'altra storia che comincia. La mia, di quelli come me, e di ragazze come Tiziana.     

Pochi giorni dopo il funerale di Giovanni, Tiziana ha cercato di mettere ordine nei documenti che l'uomo di sua madre aveva accumulato nel corso degli anni. In una cartellina posata sulla scrivania ha trovato una lettera con un francobollo australiano e dalla data sul timbro, s’è accorta che era giunta pochi giorni prima della morte di Giovanni. Lui non ne aveva parlato con nessuno. Tiziana ha letto la lettera e ha pianto.
Oggi sono andato a trovare la mia amica Tiziana.
Si sta bene in giardino, l'aria è mite.
-Leggi, è straordinario.-
Tiziana mi ha messo la lettera sotto gli occhi e dopo le prime righe ho capito, anch'io non sono riuscito a trattenere l'emozione. E’  di Grete la lettera, la piccola Grete che era stata picchiata dai giovani nazisti e per tutta la vita ha camminato con una gamba più corta dell'altra.
Grete scrive in buon italiano.
"Signor Senatore Riva. Forse non si ricorda di me, ma io l'ho conosciuta molto tempo fa, oggi sono nonna e lei, dalla fotografia che ho visto, non è più il giovanotto che ricordo in casa di mia madre a Parigi. Vorrà sapere come ho fatto a raggiungerla? E' stata un'amica a mettermi sulle sue tracce. Ha visitato l'Italia e ha letto su una rivista un'intervista in cui lei parlava di Parigi, del viaggio avventuroso per giungere in quella città. Ricordava persone conosciute allora e parlava di una donna tedesca, Margarethe, che non aveva dimenticato. Ricordava mia madre con grande affetto. Inge conosce la storia della mia famiglia e ha collegato subito lei a Margarethe. Ha conservato la rivista e quando ho letto l'intervista non ho avuto dubbi: è lei il giovanotto che un giorno mi regalò un orsacchiotto e mi faceva ridere portandomi a cavalluccio attorno al tavolo nella cucina di Parigi. Signor Senatore Riva, lei è rimasto fedele alle sue idee, furono quelle di Jacob e di Margarethe. Morirono a Dachau, mio padre nel 1935, mia madre nel 1941. Margarethe tornò in Germania perché mi ero ammalata e fu arrestata pochi mesi dopo, di lei ho un ultimo ricordo. Un pomeriggio di pioggia e i suoi occhi: mi cercano. Mia nonna era una donna di molte risorse e aveva un amico che era antifascista, ma trafficava con i nazisti. Ci procurò i passaporti e partimmo alla volta degli antipodi, certi parenti ci avevano proposto di raggiungerli. Margarethe voleva che crescessi lontana dalla Germania e io non sono mai più tornata nel mio paese. Mia nonna un giorno mi disse che Margarethe aveva conosciuto un italiano che era andato a combattere in Spagna e forse era morto. Sono contenta di aver scoperto che non è vero. Ho vissuto la mia vita in questa terra lontana dall'Europa, sono un avvocato e mi sono sposata due volte, ho quattro figli e molti nipoti. Ai figli, alle figlie, ai nipoti ho parlato spesso di mia madre, di mio padre che ricordo appena, e degli italiani. Cantavano le loro canzoni e sembravano allegri in quei tempi tristi. Io li ricordo così. C'era una signora che mi teneva sulle ginocchia, era più anziana di Margarethe, ricordo i suoi capelli, lunghi e neri..."
Aosta 30/1/2013                                                                                                                          Stefano Viaggio     


Noi cambieremo il mondo. Di Stefano Viaggio. Settima parte. Quinto episodio

Il Commendatore soffriva per  l'umidità.

In che affari mi vado a mischiare ancora? Coserelle di scugnizzi.

Una notte in bianco, solo perché gli avevano chiesto un favore.
Di ben altro s'era trattato quando era giovane! E dopo la guerra, quando certe cose stavano per prendere il verso sbagliato? Allora sì! La memoria di quest'uomo ormai sulla settantina riandava a quando aveva organizzato l'arrivo di armi dalla Svizzera, nascoste nel doppio fondo di un camion carico di scatole di vernice. Fucili mitragliatori, bombe a mano, pistole automatiche. Tutto in ottimo stato, l'aveva controllato lui stesso, e di fabbricazione tedesca. Ottima qualità. Poi non s'era fatto niente.

Meglio così.

I comunisti avevano perso le elezioni e non c'era stato bisogno di sparare un colpo. Ma nessuno era stato smobilitato. Con i titini alle porte! Un piccola pressione. Ogni tanto.

Come un ceffone a una donna, ogni tanto. Per ricordare chi comanda.

Ripeteva sempre quella frase il Commendatore, anche ora che se ne stava a prender l'umido e sapeva che le donne erano un altro bel ricordo. Si appoggiò alla macchina e accese il pezzo di toscano che s'era conservato. Poi s'accorse dei fari accesi che venivano avanti.
-Sono loro. In perfetto orario, il Vicentino è sempre puntuale.-mormorò il Commendatore. Fece qualche passo verso l'altra vettura che intanto s'era fermata sul ciglio della strada, sentì sul fianco la massa dura della pistola.

Non fidarsi è meglio.

Era le seconda metà del proverbio che l'aveva salvato in altre  situazioni difficili. Ma col Vicentino poteva stare tranquillo.
Era un uomo di media statura, s'era messo il cappotto buono per l'occasione. Venne avanti da solo, l'autista rimase in macchina.

Sono armati anche loro. E' naturale.

Chissà perché quella certezza, per la prima volta nella sua vita, inquietò il Commendatore.

Coserelle da scugnizzi.

-Sbrighiamoci che fa freddo.-
Il Commendatore parlava col tono antico della caserma.
-Tutto è apposto.-rispose il Vicentino. Il soprannome non nascondeva l'accento napoletano che non se n'era mai andato dopo tanti anni di permanenza al nord.
-I ragazzi sono già in città. Prima cominciamo dal liceo. Poi passiamo alle sezioni, un gruppo s'incarica di pulire i muri dai manifesti e se tutto va bene a Riva...-
Il Commendatore sollevò la mano destra.
-No, Riva no.-
-E perché, Commendatore?-
-Riva no. Colpire uno come Riva scatenerebbe un putiferio della madonna. E' un parlamentare, un ex partigiano. Gente che non scherza, che se li fuma i tuoi scugnizzi. E per ora a quelli come Riva ci pensa chi ci deve pensare. Intesi.-
-Agli ordini.-
Il Vicentino era deluso, ma s'era quasi messo sull'attenti.
Il Commendatore estrasse una busta dalla tasca della giacca.
-Ecco qua. E non vi ci abituate, che le elezioni non vengono tutti i giorni.-
Il Vicentino mentre prendeva i soldi fece un sorriso, sembrò esitare.
-Che c'è?-fece il Commendatore.
-Come ai vecchi tempi?-disse allora il Vicentino con un  tono diverso, amichevole.-State sempre in salute voi, come un giovanotto.-
Il Commendatore sentì la puzza di cattiva brillantina e l'odore era forte perché quello non s'era nemmeno messo il cappello. Tutto nel Vicentino gli ricordava la caserma e quelle canzoni inutili...
"...le donne non ci vogliono più bene..."

Chissà in quale bordello te li vai a spendere.

Quello sorrideva.
-Che tempi? Io e te non ci siamo mai conosciuti, ricordatelo bene. E, mi raccomando. Cose da persone serie.-
Il Commendatore girò sui tacchi e si diresse verso la sua automobile. Non sentì il Vicentino che fra i denti gli indirizzava un:
-Possi crepare all'inferno, strunzone.-
                          
Dai comunisti quella sera si ballava perché non erano stati cancellati dalla storia, come avevano chiesto i loro avversari nei comizi finali della campagna elettorale. Il Partito Comunista restava il secondo partito in Italia, aumentava in voti e in percentuale. I manifesti con i carri armati che schiacciavano gli studenti ungheresi non avevano cambiato il voto operaio, contadino e popolare.
-Questa è la realtà.- dissero in sezione commentando i primi risultati.
E nemmeno i fatti avvenuti qua e là, erano serviti a mettere paura alla gente. In città era cominciato con due studenti che diffondevano  manifestini sulla tortura in Algeria. I ragazzi erano  stati aggrediti una mattina nei pressi del Liceo. All'altezza di una fontana che schizzava l'acqua dalla bocca di un toro, attendeva una vecchia Lancia e quasi sbarrava la strada ai passanti. Dalla macchina erano scesi quattro giovanotti mai visti in città, senza tante chiacchiere avevano spinto i ragazzi contro il muro e avevano cominciato a picchiare con calci e pugni. Dopo aver strappato i volantini, i quattro, risaliti in macchina, s'erano dissolti nella mattina nebbiosa. Un passante era riuscito a prendere il numero di targa della Lancia, ma non era servito a niente. Al commissariato avevano risposto che avrebbero seguito le normali prassi investigative per accertare le circostanze dell'incidente. Il commissario ci teneva a dire:
-Incidenti fra giovani di opposte fazioni, Onorevole Riva.-
E Giovanni gli aveva riso in faccia.
-Gli aggressori, i fascisti insomma, venivano da Torino.-aveva ribattuto.
-Onorevole, lei salta subito a certe conclusioni. Chi le assicura che si tratti di...-
-Fascisti. Ha paura della parola. Fascisti! Guardi, ci sono ancora, e voi li conoscete bene.-
Il Commissario s'innervosiva.
-Cosa intende dire Onorevole Riva? Noi facciamo il nostro lavoro.-
-Il compito di mantenere l'ordine è suo, commissario. E anche quello di far rispettare la legge.-
-Una minaccia?-
-Io la richiamo ai suoi doveri di tutore dell'ordine pubblico, quando due giovani vengono aggrediti davanti a una scuola da individui sconosciuti...-
-Il Liceo della città, Onorevole Riva!-
-Lo so, il Liceo della città. Ci sono stato anch'io in quella scuola...Il Liceo. Lei ha ragione signor commissario, che ci siano giovani democratici in quella scuola, ragazzi che parlano di democrazia e libertà, della lotta nel mondo...-
-Onorevole Riva questa non è una pubblica piazza...-
-Se lo lasci dire commissario: a qualcuno da fastidio che nel liceo cittadino ci siano studenti comunisti, per questo hanno mandato i fascisti. Noi vogliamo sapere chi è il mandante di questa aggressione. Lei è responsabile di quello che può accadere in città!-
-Io non le permetto di...-
Giovanni Riva aveva voltato le spalle al Commissario e s'era sbattuto dietro la porta dell'ufficio lasciando l'uomo sui quarantacinque anni, il fazzolettino ben piegato nel taschino della giacca, con i pugni stretti sino a farsi male. Se non fosse stato per l'immunità parlamentare, avrebbe volentieri sbattuto Riva in galera. Come si permetteva!
Ai compagni Giovanni aveva detto:
-Occorre prudenza, ma se è necessario ci difenderemo. Niente azioni incontrollate, questi cercano l'incidente e non lo avranno.-
L'incendio a un banchetto dell'Unità era seguito all'aggressione dei due ragazzi, una bomba incendiaria era stata lanciata di notte  contro il portone della Federazione del PCI. Nessuno l'aveva detto o scritto, ma gli attentatori non avevano fatto in tempo a tirare la prima bottiglia incendiaria  che sulle loro teste erano fischiati i proiettili. Due, tre colpi di moschetto sparati volutamente in aria. Gli ex partigiani s'erano organizzati e avevano atteso,  dandosi il cambio per molte notti di seguito. Quei colpi di fucile erano il segnale che lo scherzo dura poco. L'indomani un corteo antifascista era sfilato per le strade della città sino a Piazza della Vittoria, sul palco erano saliti i compagni che avevano fatto la lotta clandestina. Clotilde, accanto a Giovanni che parlava al microfono, aveva riconosciuto Agnese nella folla. Era andata alla manifestazione e s'era portata anche Tiziana.

Il martedì successivo alla domenica delle elezioni, il PCI era ancora il primo partito in città.
I fazzoletti rossi a Giovanni sembravano fiori per il futuro, le gonne erano vele, mosse dal vento e pronte, se necessario, anche a volare al suono di vecchi valzer contadini che nonni e nonne di quei comunisti, avevano già ballato sulle aie al tempo della mietitura. Ma si suonavano anche le musiche nuove quella sera. La gente chiedeva di ascoltare l'aria della canzone vincitrice del Festival di San Remo.
"Nel blu dipinto di blu..."
Giovanni provò a fischiettare in mezzo al vociare dei compagni. Lui fumava molto, rispondeva a chi gli chiedeva se i socialisti erano ormai decisi a rompere con la sinistra e andare dai democristiani. Gli mettevano fra le mani tabelle con voti e percentuali. La sua rielezione in Parlamento  provava che la gente si fidava ancora di uomini con il suo passato. C'erano molte ragazze quella sera, e belle. Donne giovani, venute in compagnia di madri e padri, curiose di sapere chi aveva vinto le elezioni. I preti o il popolo? Giovanni pensava che fra poco gli sarebbe toccato di ballare con una di loro e non smetteva di pensare al giorno della manifestazione. Anche lui aveva visto una donna, gli era sembrato di riconoscere Agnese e quando tutto era finito, l'aveva cercata fra i tanti volti, gente che voleva salutarlo e stringergli la mano, ma Agnese non era venuta per farsi riconoscere. Forse non era lei la donna con la camicetta celeste e i capelli neri, lunghi sulle spalle. Il dubbio aveva frenato la decisione di telefonare.
Mentre dava ancora un'occhiata ai risultati delle frazioni di campagna in cui c'era stato un leggero calo di voti, pensava che prima di tornare a Roma avrebbe visto Agnese.

Debbo andare da Clotilde, debbo chiederle notizie di Agnese.

Quella sera Clotilde non era venuta perché i reumatismi non le davano tregua.

Certamente hanno continuato a vedersi. Agnese saprà tutto di me.

-Guarda un po' Riva.-disse qualcuno. Giovanni gettò uno sguardo agli ultimi risultati, i definitivi dei paesi più vicini. La propaganda della Coldiretti aveva fatto breccia, un po' di voti fra i contadini li avevano persi.
-Teniamo bene.-disse Giovanni.
Nella confusione e nell'affollamento aveva davanti la faccia preoccupata di un compagno che conosceva solo di vista. Era il segretario di una cellula che raccoglieva iscritti fra  gli abitanti dei villaggi più alti,  dove comincia la montagna.
-Se tutto filasse liscio chissà da quando saremmo al potere! Occorre recuperare i voti persi, riunite i compagni. Da domani.-disse Giovanni al compagno preoccupato.

Ma cosa sto dicendo?
                                                    
Com'era possibile che quella sera, lui, Giovanni Riva, l'artefice di una vittoria elettorale importante, fosse l'unica persona infelice in mezzo a tanta allegria?

Perché ora e subito, io non posso andar via di qui?

A coloro che lo avrebbero guardato con  stupore cos'avrebbe risposto? Niente.
Le facce interrogavano lui, l'intellettuale antifascista, il partigiano, l'erede della famiglia ricca che volta le spalle al privilegio per stare con la povera gente, ne condivide le miserie e le speranze. L'allegria  oggi. La tristezza degli edili sotto la pioggia. Il silenzio dei meridionali dietro le persiane che non si aprono. La rabbia per i manifesti strappati e DUX scritto sui muri.

Io li odio.

E gli sembrò di impazzire.

Sono loro. E' questa festa che m'impedisce di andarmene a cercare Agnese.

Pensò di inventare una scusa. Si sarebbe allontanato e avrebbe raggiunto la villetta in cui abitava "la signora Vairos", così la chiamavano ora in città.

Scommetto che vota per i socialisti.

Gli misero in mano un foglio con altri seggi scrutinati e altri voti dalla campagna. Le cose andavano meglio, anzi, decisamente meglio.

Sibilla… Cosa fa in questo momento?

Giovanni immaginò il marito di Sibilla. Lo vide di spalle, con le maniche della camicia rimboccate sui gomiti e le mani di quest'uomo, forti mani  che di notte accarezzavano Sibilla. Con quell'uomo Sibilla avrebbe avuto uno, due, tre bambini...

Debbo vedere Agnese.

Era stato rieletto in quel collegio,  sentiva di avere delle responsabilità verso la gente che lo aveva votato. E allora sarebbe tornato spesso al nord. Voleva capire chi era l'operaio dentro le fabbriche nuove e parlare con i giovani meridionali che aspettavano il lavoro dietro i cancelli.
Capire e interpretare il nuovo: era questo il traguardo.
Guardò i ragazzi venuti a ballare alla festa dei comunisti. Com'erano diversi dai giovani partigiani, dai contadini rossi con cui aveva bevuto e discusso sino a notte alta quando andava a trovare Sibilla. Sì, erano diversi. E c'erano ancora tante cose da fare. Troppe.

Che ne sarà di me se non vedo Agnese prima di partire?

Un dolore gli trafisse lo stomaco e subito il sudore freddo gli ghiacciò la fronte. E fu un caso che Marco si trovasse accanto a lui.
Giovanni si guardò intorno, era come se chiedesse aiuto.
-Che hai Riva, stai male?-
-Un po' stanco.-
Giovanni compì un grande sforzo per controllarsi e nuovamente sudò freddo. Udì una voce che si rivolgeva a lui.
-Per favore, il compagno Riva...lascialo repirare...-disse Marco. Giovanni fece un gesto e si volse per rispondere, sentì che lo tiravano via.
-Vieni Riva. Vieni con me.-diceva Marco.
Lo trascinò lontano dalla folla e dal rumore, camminarono senza parlare per un tratto di viale alberato. La ritrovata pace, unita a una brezza leggera, fece bene a Giovanni.
-Non ne potevo più.-
Rivolse a Marco uno sguardo di gratitudine.
-Ho capito che non stavi bene. I compagni sono contenti per la vittoria e...-
-Tutti siamo contenti. Il risultato è molto importante.-
Giovanni usò un tono quasi brusco, continuarono a camminare. Dietro un albero c'era una coppia, si baciavano.
-Torniamo indietro.-disse Giovanni.
La fuga improvvisa gli sembrò una sciocchezza.
-Sei sicuro di star bene?-
-Torniamo, non preoccuparti.-
Volsero le spalle alla notte. Giovanni avvertì il battito del suo cuore.

L'Onorevole Giovanni Riva stroncato da un infarto il giorno delle vittoria del PCI nella sua città. Il dirigente comunista...

Questo avrebbero scritto i giornali. Un brivido attraversò Giovanni per tutto il corpo e mano a mano che si avvicinavano alla festa il rumore cresceva. Ma la musica s'interruppe di colpo, Ferrero, il responsabile dell'organizzazione, era salito sul palco.
-Compagni.-disse al microfono-Volevo leggere i risultati definitivi nella  città e in provincia. E' arrivato un comunicato della Direzione del partito. Vi ricordo che è pronta l'edizione straordinaria dell'Unità e già i compagni si stanno organizzando per la diffusione di domani mattina. Servono altri volontari.-
Ferrero parlava e cercava Giovanni fra la folla.
-Vieni Marco, ci aspettano.-disse Giovanni, accelerò il passo e fece un gesto. Ferrero prima di leggere i risultati attese che il compagno Riva fosse accanto a lui.
                             
Restare ancora per l'ultimo bicchiere di vino da bere insieme ai compagni. Qualcuno guardò l'orologio, a quell'ora non valeva la pena andare a dormire, costava meno fatica tirare sino all'alba, ritirare i giornali e raggiungere le fabbriche per l'entrata del primo turno.
Giovanni sedeva attorno al tavolo insieme ai compagni del direttivo della Federazione. Con la notte tiepida, l'ultima bottiglia era proprio giusta. Un buon vino di collina. Era l'Italia contadina e partigiana che piaceva a Giovanni. Desiderò andare sino ad Alba in macchina, per  guardare le colline e la luna, aspettare i falò. Giovanni sorrise.

Perchè tornare a Roma?

Due compagni trafficavano attorno alla pompa dell'acqua che aveva smesso di funzionare; il più giovane toccò il braccio di quello più anziano. L'altro sollevò il capo con l'espressione incarognita di chi è stanco, vorrebbe andarsene  e non può.
-Guarda chi c'è.-disse indicando l'entrata del parco. L'altro si volse e vide Agnese Vairos.
-La Vairos? E' diventata nottambula. E che ci viene a fare qui?-
Il giovane sorrise con l'aria di saper quello che tutti sanno, ma di cui nessuno parla.
-Allora?-fece il più vecchio e  qualcosa venne su dalla memoria.
-Tu non sai niente?-
-E che c'è da sapere?-mentì il compagno anziano.
-Ma va. Lo dicono tutti che la Vairos e Riva si son conosciuti bene una volta.-
Il compagno guardava Agnese, s'era fermata sotto un lampione volante appeso al ramo di un albero. Fece un passo indietro, come colta da improvviso timore, e rientrò nell'oscurità. Il compagno conosceva la Vairos, sua moglie aveva lavorato  per due anni alla "Lampo". Si sollevò  e lentamente raggiunse Agnese, quando le fu vicino scambiò con lei qualche parola. Poi, sempre con la lentezza che misurava tutta la stanchezza della giornata, si avvicinò ai dirigenti e chinandosi alle spalle di Giovanni gli mormorò qualcosa all'orecchio.
                            
Il netturbino spazzava il selciato in Piazza della Vittoria e ringraziava Dio che le elezioni fossero passate.
-Alle prossime! Tanto a me, sempre scopare carta, tocca.-
Non ne poteva più di tutta quella carta. Gli avevano detto che i comunisti erano andati bene; il netturbino non s'interessava di politica, leggeva solo La Gazzetta dello Sport. Ma la notizia gli faceva piacere.
Il netturbino si volse a guardare la coppia seduta sui gradini della fontana, si grattò la testa e pensò che al mondo ce n'era di gente che campava senza il pensiero di doversi alzare ogni mattina per andare a lavorare.
-Beati loro.-
E continuò a radunare cartacce.
Agnese accese una sigaretta.
-Sei stanco?-
-Vorrei che non venisse mai giorno. Mi piacerebbe andare in giro per questa città ancora una notte e poi un'altra ancora e poi...-
-E poi?-
-Mi sono accorto che questo luogo mi manca. Questa piazza,  laggiù il Borgo Vecchio. Il Liceo.-
Giovanni indicò il viale.
-C'era lo studio di mio padre.-
Agnese chinò il capo a guardarsi la punta delle scarpe, si vergognava un poco ma aveva voglia di togliersele perché i piedi le facevano male.
-Sono passati anni...-disse quasi parlando a se stessa.
-Non sarei ripartito senza vederti e tu hai fatto lo stesso. E' vero, sono passati anni, non ci siamo scritti nemmeno un rigo eppure siamo qui, in Piazza della Vittoria, sono le sei del mattino. Perché abbiamo passeggiato per tutta la notte? E atteso l'alba? Non ci vedi qualcosa di assolutamente...-
-Credi a queste cose?-
-No.-
Giovanni attese prima di proseguire.
-E' la vita forse. Bisogna giocarla come una partita: l'importante è che le carte, la stecca del bigliardo, il pallone, quello che vuoi…sia nelle nostre mani.-
-E le tue carte le hai avute sempre nelle mani? Sempre?-
Giovanni voleva essere onesto con Agnese. In quei pochi secondi la vita gli passò davanti agli occhi.
-Lo spero.-
Agnese si sollevò in piedi e gli tese la mano. Camminarono un poco mano nella mano, Giovanni comprese dove voleva condurlo.
-Sono venuta spesso qui.-disse Agnese quando furono nel giardino che si affacciava sul fiume, davanti all'antica torre.
-Camminavo lungo il fiume, sedevo su una panchina, guardavo la torre e mi veniva in mente quel giorno. Ero quasi una bambina, ero appena scesa dalle montagne. Mi veniva da piangere. Lo sai? Poi...-
Agnese si fermò. Giovanni attese, in lui si fondevano insieme l'emozione e una forte attrazione fisica per Agnese.
-Poi sentivo la voce di Tiziana e correvo da lei che giocava con la ghiaia, le pulivo le mani per paura che prendesse qualcosa...-
-Tiziana...-
-Non te l'hanno detto? Ho una figlia.-
Giovanni scosse il capo. No, nessuno con lui s'era azzardato a far pettegolezzi sulla Vairos.
-E' nata nel cinquantuno, fa la seconda elementare...E' mia figlia, solo mia.-
Quell'ultima precisazione intimorì un poco Giovanni. Ignorava il giuramento segreto pronunciato una sera di lacrime e solitudine.

Come si parla a una bambina di sette anni?

Vide questa bambina che osservava prima lo sconosciuto signore e poi cercava sicurezza rivolgendosi alla madre.
-Quando me la fai conoscere, Tiziana?-
Agnese allora mosse un passo e si avvicinò alla balaustra di ferro, guardò la torre in cui l'innamorato aveva atteso che la principessa lo liberasse dalla lunga prigionia.
Fu ancora Giovanni a parlare.
-Spero molto presto. Non è vero, Agnese?-
Le loro vite s'erano incontrate e poi divise, ora stavano di nuovo lì, nel luogo in cui un ragazzo tanti anni prima aveva scritto nella lingua degli antichi "io ti voglio bene" per una piccola cameriera. E l'immagine della torre, riflessa nel fiume raccontava una storia accaduta secoli prima, e in una villetta di periferia c'era una bambina che dormiva sorvegliata da un'anziana signora, Clotilde. La Vedova Rossa vegliava in attesa di una notizia. Fra poco Tiziana avrebbe chiesto di affrontare un'altra giornata della sua vita. Agnese pensò che tutto fosse come il percorso di  un cerchio magico che giunge al suo compimento e si chiude. Erano passati ventidue anni. Chiuse gli occhi, poi li dischiuse per ricevere nello sguardo l'oro del sole che si spezzava in mille frammenti nel vecchio fiume. Sentì la mano di Giovanni prendere la sua, si volse e lo baciò sulle labbra.
A quell'ora passavano le biciclette sul lungo fiume, qualcuno vide due persone abbracciate, i volti confusi in un lungo bacio, mandò un fischio e si allontanò, perdendosi nella città e nel nuovo giorno che cominciava. Agnese accostò le labbra all'orecchio di Giovanni.
-Ci sono altre cose che non sai...-mormorò.

                                                    fine della settima parte